La solitudine dei numeri secondi: Musumeci e l’allergia per i leader
Redazione
Segnali di gelo(sia) da Salvini, dopo l’iperattivismo mediatico del governatore sui migranti. I dubbi leghisti: «Vuole stare da solo?»
E se fosse una maledizione, la solitudine dei numeri secondi? Un’idiosincrasia, nella decrescita infelice di leadership sempre più fragili e caduche, di capi&capetti nei confronti di chi, per giunta dalla periferica Sicilia, osi fare loro ombra. Ieri come oggi. Oppure è davvero un problema suo. Cioè di Nello Musumeci. Che proprio non riesce a convivere sotto lo stesso tetto con chi vuole ospitarlo da semplice inquilino. Un’antica allergia, acuitasi negli anni, per la subordinazione politica.
Così è, se vi pare. Gli ultimi segnali di felpato (e non c’entrano le felpe) fastidio arrivano da Matteo Salvini. Il promesso sposo, in un matrimonio – la federazione proposta dalla Lega a DiventeràBellissima – che il governatore prova a rimandare, ormai da mesi, con qualsiasi pretesto. Eppure adesso anche dall’entourage salviniano cominciano a serpeggiare dubbi «sulla compatibilità» – e, aggiunge qualcuno, «sull’affidabilità» – del partner siciliano.
Il primo legittimo sospetto è che questo nuovo sentimento si possa attribuire all’iperattivismo di Musumeci sul tema dei migranti. Dall’estate del Papeete e dei porti chiusi, la scorsa, a quella del ColonNello che dichiara guerra a Roma. Dal Mojito alla gazzosa. Con Musumeci osannato dai giornali di destra e conteso in plurime ospitate tv da frontman nazionale contro il governo giallorosso. Vero è che Salvini, dopo aver rivendicato il ruolo di «ispiratore» della svolta siciliana anti-migranti, ha più volte esternato «complimenti» e «sostegno» a Musumeci sull’ordinanza, chiedendo a governatori e sindaci della Lega di emularlo chiudendo i centri d’accoglienza. Ma è altrettanto vero che, dopo aver definito «una vergogna» la sospensiva del Tar Sicilia, il leader della Lega s’è un po’ defilato. Mandando avanti le sue seconde file nel flash mob sotto Palazzo Chigi, nel giorno della «convocazione» del governatore al tavolo sui migranti.
Ed è proprio quella sera che, raccontano i salviniani più di peso, si comincia a rompere il giocattolo. Perché Musumeci, è l’accusa che rimbalza da Roma alla Sicilia, s’è accontentato di ciò che il segretario regionale Stefano Candiani definisce «una caterva di promesse e anche qualche mancetta per fare stare buoni i siciliani e i lampedusani in particolare». I leghisti più critici nei confronti del governatore hanno convinto Salvini della loro tesi: «Nello, dopo l’ubriacatura mediatica e social per la sua campagna, è arrivato a quell’incontro già sazio. Per lui era già un successo sedersi davanti al governo e s’è fatto prendere in giro». E c’è chi aggiunge un dettaglio ancor più malizioso: «Ora, dopo aver alzato il polverone, è sotto ricatto sulle Zes siciliane: “O cominciate a fare i bravi, o soldi non ve ne diamo”, gli hanno detto dal governo».
E così dalla gelosia al gelo è un attimo. Il rapporto non è certo compromesso (anche perché la Lega ha perso il potere contrattuale di quando aveva il vento in poppa nei sondaggi), ma incrinato. «Per Matteo s’è quasi rotto il cerchio della fiducia», si spinge a dire un big siciliano.
Non è la prima volta, per Musumeci. Che, in tutte le precedenti vite politiche, ha sempre avuto relazioni difficili con i suoi leader. Il caso più eclatante è Gianfranco Fini. Un rapporto mai decollato, con l’allora plenipotenziario di Alleanza nazionale. «Tutte le volte che Gianfranco è venuto a Catania – ricorda un vecchio saggio della destra etnea – non gli ho mai sentito chiedere: “E Nello dov’è?”». I due non si sono mai amati. «Alle Europee del 1999 e del 2004 presi più preferenze di Fini. Mi disse solo: “Non ho gradito”. E me ne andai», rivelò Musumeci al Corriere. Eppure, secondo un dirigente di An dell’epoca, c’era già «una rabbia che covava da quando Fini, sollecitato da Miccichè e Lo Porto, nel 2001 preferì sostenere Cuffaro come governatore, nonostante Musumeci aspirasse a quella candidatura».
Ma persino Fini invidiava le doti oratorie dell’allora presidente della Provincia di Catania: «È difficile chiudere un comizio parlando dopo di lui», ammise dopo un bagno di folla in piazza Università, con applausometro stravinto dal militellese col pizzetto. La pensa così anche Silvio Berlusconi. «Nel 2005 venne a un mio comizio per Scapagnini sindaco di Catania e chiese: “Dove l’avete tenuto nascosto questo qui?”», raccontò Musumeci. Che ha sempre riconosciuto Enzo Trantino come suo maestro («Mi trasmise l’arte di parlare in pubblico») al pari del compianto Vito Cusimano, che «mi insegnò a leggere un bilancio e a scrivere una delibera». Sono loro, gli unici padri nobili con cui Musumeci è stato sempre un passo indietro. Con un’altra gigantesca eccezione. «Il mio figlio più piccolo si chiama Giorgio come Almirante, l’ho promesso al mio segretario – svelò una volta – prima che se ne andasse». Anche se i missini più anziani ricordano che «per Almirante, all’epoca, Nello era un brillante giovanotto che lo accompagnava guidando l’auto di Cusimano».
E un dolce ritratto, su Libero, glielo riservò donna Assunta: «Musumeci? Un giovane che è un signore di altri tempi, uno che somiglia ai politici che conoscevo io, di destra di sinistra e centro, e che ora non esistono più», disse di lui la vedova di Almirante nel 2012 (quando il «giovane» Nello aveva già 57 anni), accostandolo a Francesco Storace nel pantheon della «destra vera». Anche con l’ex governatore del Lazio ci fu un sodalizio politico. Musumeci, uscito da An nel 2005, fondò la sua Alleanza Siciliana. Che, tre anni dopo, confluì ne La Destra di Storace, il quale diede all’alleato siciliano il ruolo di vicesegretario nazionale (a cui rinunciò un anno dopo) e lo fece entrare nel governo Berlusconi IV nel 2011, come sottosegretario al Lavoro. Ma Musumeci, 12 mesi dopo, da candidato governatore, corse all’Ars con una lista sua. E nel 2017, alla vigilia della Regionali poi vinte, fece arrivare all’ex sodale un messaggio: la sua presenza in campagna elettorale non era gradita «perché il mio movimento vuole togliersi l’etichetta di estrema destra». Storace non la prese bene. Soltanto di recente, col direttore del Secolo d’Italia, il clima è tornato disteso.
Molto diverso, anche per ragioni anagrafiche, l’approccio con Giorgia Meloni. Che comunque fu la prima, nelle tormentate trattative dell’estate di tre anni fa, a rompere il fronte del centrodestra orientato a candidare Gaetano Armao. Subito dopo la conferenza stampa alla Camera, raccontano, ci fu un incontro ristrettissimo. In cui la leader di Fratelli d’Italia, che Musumeci non ha mai riconosciuto fino in fondo come tale, gli parlò di una reciproca «rendita politica» della mossa. Suscitando l’indignazione dell’interlocutore: «Giorgia, ma che dici? Io sono un vero uomo di destra! Non puoi chiedermi: “Che ci guadagno io?”». I due si salutarono con chiaro ’imbarazzo. E Meloni, battendosi l’indice sulla fronte, sussurrò alla persona che accompagnava l’aspirante governatore: «Vabbe’, ma allora fatelo internare questo qui…».
Un feeling forse mai nato. E seppellito, definitivamente, quando Musumeci, nel febbraio 2019, sbatté la porta in faccia a Raffaele Stancanelli (ex suo spin doctor, altra vittima della sindrome da cono d’ombra dell’ombroso presidente) che proponeva di far confluire DiventeràBellissima in Fdi, con un test d’alleanza alle Europee. «C’è una prateria, tu avrai un ruolo nazionale accanto a Giorgia leader», lo implorò l’attuale eurodeputato. Ma il governatore disse di no, con la fatwa su «un partito inchiodato tra il 2,5 e il 5 per cento». Oggi Meloni veleggia sul 17%, insidiando la Lega nei sondaggi.
«Nello preferisce imperare nel suo orto piuttosto che condividere un feudo con altri», è la diagnosi di chi gli è amico da mezzo secolo. E ora tocca a Salvini. A lungo corteggiato (pur senza troppe effusioni), magari per assecondare la strategia di Ruggero Razza, suo delfino e consigliere, e garantire un futuro politico ai fedelissimi. Ma, ricevuto dal Capitano l’inequivocabile invito col biglietto da “special guest” nella federazione dei movimenti siciliani, da Musumeci, dopo uno stringato «ne parleremo», ora arrivano soltanto silenzi. «Nel meeting di Agrigento – annota un attento leghista – nemmeno un cenno all’accordo con noi. Vuole stare da solo? Il progetto va avanti, con o senza di lui». Né è passato inosservato il netto coming out del governatore sul referendum: un No antitetico al Sì di Salvini. Dal quale, proprio ad Agrigento, Musumeci ha tracciato la distanza sul tema più caldo: «Noi non vogliamo combattere i migranti», ha detto, sdoganando il concetto di immigrazione come «risorsa».
Ce n’è abbastanza per far innervosire i salviniani. «Forse il presidente s’è convinto che, non essendoci alternative all’orizzonte, sarà ricandidato in automatico senza nemmeno chiederlo. Ma se pensa questo si sbaglia di grosso», sibilano i Matteo-boys di Sicilia. Confessando minacciosi: «Finora non abbiamo ascoltato chi, nel centrodestra, mette in dubbio il suo secondo mandato. Ora cominceremo a rispondere al telefono. Da qui al 2022 c’è tanto tempo…». https://adpfm.ca
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